belvedere tra storia e leggenda

a cura di Salvatore Fabiano

L’ ESPIAZIONE DEL MULO

ALLA SCOPERTA DELL’ AMERICA

FRATE  GUGLIELMO  E I BRIGANTI

IL CASTELLO ED IL PASSAGGIO SEGRETO

LA  GABBULA  DEL  SANTONE

LO STRANO  STEMMA  ARALDICO 

LE  FRONTIERE DEL DEMONIO  

DONNA  SVEVA  DEGLI  ORSINI


L’ ESPIAZIONE DEL MULO

Si narra che, in un fondaco appartenuto alla famiglia di San Daniele Fasanella nel quartiere Vallata, vi fosse ubicato un frantoio.

Ogni anno, le olive raccolte venivano lì portate, a dorso di quadrupedi da soma, in corposi sacchi di juta.

Per far girare la pesantissima macina veniva utilizzato un mulo, il più potente, il più giovane.

Un anno, finita l’operazione di frantumazione delle olive, il povero animale, stremato dalla lunga fatica, si accasciò al suolo e morì.

Il macabro avvenimento si verificò anche nell’anno successivo.

Il fondaco, nel quale era stato realizzato il frantoio, pare che avesse ospitato i giochi infantili del futuro Santo Protettore.

Si pensò così che l’accadimento era dovuto alla profanazione del luogo che avrebbe meritato  maggior cura e rispetto da parte dei cittadini. Pare che sia stato abbandonato per molto tempo. Ne fu costruito uno nuovo nei pressi, in un locale che non avrebbe in alcun modo potuto riferirsi alla vita del Santo.


ALLA SCOPERTA DELL’ AMERICA

Era l’estate del 1492 quando un veliero gettò l’ancora al largo della scogliera di Belvedere. Si narra che una scialuppa scese a terra per imbarcare un provetto marinaio. Tanta gente accorse incredula e curiosa sulla spiaggia. Diego il Calabrese, così era detto in mancanza di anagrafe ufficiale, sarebbe stato arruolato nel corpo di spedizione di Cristoforo Colombo in partenza, con le tre caravelle, alla scoperta di nuovi mondi. L’impresa era finanziata dalla regina Isabella di Castiglia.

Il marinaio belvederese era un esperto cartografo e tenuto in gran conto dal navigatore genovese. Le leggende del tempo, assurte poi al valore di storia, narrano pure di un certo Angelo Manetti, di Aiello Calabro, e di Anton Calabres di Amantea che fecero parte della stessa  spedizione che, senza saperlo, portò i primi navigatori alla scoperta dell’America.

Dopo tante avventure nei mari  e negli oceani, il suo nome svanì nel nulla. Non fece più ritorno alla sua terra.


FRATE  GUGLIELMO  E I BRIGANTI

Il brigantaggio meridionale nacque e si radicò, nelle nostre regioni, durante il periodo della Repubblica Partenopea di fine Settecento.

Fu un fenomeno rivoluzionario che unì vari personaggi per combattere soprusi dei potenti e degli occupanti stranieri. Nella provincia cosentina assursero al ruolo di capi briganti Pietro Monaco e Maria Oliverio, con i soprannomi di  U Bruttacera e di Ciccilla.

A precederli, nelle zone tirreniche, furono Giuseppe Necco di Scalea e Pietro Palazzo di Belvedere.  Si narra che il Necco fosse figlio di un frate e, per tale motivo, gli aderenti godessero di protezione nei tanti Conventi, compresi quelli di Belvedere, durante la  latitanza.

Nell’Agostiniano di via Annunziata viveva ed operava Padre Guglielmo Libonati, di una importante famiglia belvederese che, secondo leggenda, sarebbe stato il confessore della Regina Carolina d’Austria. Quì furono ospitati tanti seguaci del Necco, con la complicità e le minacce di Pietro Palazzo.

Nel 1805, il Libonati fu ucciso a tradimento dagli ingenerosi uomini di Necco.

Non è dato sapere se a seguito di una rissa nel Convento e con un appostamento esterno. Agonizzò per le mortali ferite per due giorni.

Per oltre un secolo il Complesso Agostiniano fu adibito a Carcere Mandamentale e si narra che annualmente, in coincidenza con la data della sofferenza e morte di Frate Guglielmo, echeggiassero i lamenti che impressionavano i detenuti.


IL CASTELLO ED IL PASSAGGIO SEGRETO

La domanda ricorrente che va di bocca in bocca, quando si parla del Castello Angioino-Aragonese di Belvedere, si riferisce all’esistenza di un passaggio segreto tra il maniero e la Torre di Paolo Emilio di contrada Rocca, situata a circa due chilometri di distanza.

E’ una domanda a cui non si può rispondere. Nessuno lo ha percorso, pochi hanno intravisto il supposto inizio del cunicolo nel Castello e non vi può essere traccia visibile nella Torre della Rocca ormai cadente.

Si pone la domanda, ma non si accetta la risposta di chi prova ad argomentare. La leggenda prende spesso, molto spesso, il sopravvento sulla ragione e l’interrogante ne esce più convinto di prima. Poi la domanda verrà posta ad altri con la speranza che la risposta sia, prima o poi, positiva e da “testimone oculare”. Ma forse si può solo raccogliere un banale e scontato: “Così raccontava mio nonno!” Il mistero continuerà a sopravvivere.


LA  GABBULA  DEL  SANTONE

Viveva in un vicolo del Borgo Antico di Belvedere un vecchio e ricco signore. Proprietario terriero, di buona cultura e dai comportamenti equivoci in quanto si sussurrava che celebrasse riti para religiosi. Ma la sua fama era dovuta all’invenzione di un complicato attrezzo detto GABBULA.

L’ aveva costruito per carpire al buona fede dei creduloni esistente ad ogni latitudine e longitudine.

Consisteva in una bacinella di “terracotta stainata” dentro e fuori e dipinta con  immagini diaboliche. Riempita d’acqua, vi metteva a galleggiare una croce di legno da cui sporgeva un chiodo, al quale infilzava un mozzicone di candela accesa. Gli avventori erano convinti che egli, con questo rito, indovinasse il futuro, ma essenzialmente il passato: Un furto da scoprire, un tradimento, un tentativo di “scippo” della fidanzata  o una semplice maldicenza messa in giro da chissà chi.

L’aveva pensata per i suoi coloni che sospettava nascondessero i prodotti della terra. La sua astuzia era spesso vincente sugli incolti contadini e così, al diffondersi dei risultati, pensò di estendere l’attività verso tutti coloro che cercassero la sua opera.

 La domenica nel vicolo del vecchio borgo si dipanava una lunga  fila di persone che esibivano i compensi in natura da offrire al vecchio santone.,,,,, per la “grazia ricevuta”.

Per le situazioni delicate, il santone riceveva anche in ore notturne.


LO STRANO  STEMMA  ARALDICO 

Forse i Principi Monforte, forse la Famiglia Caracciolo!

Uno strano stemma fu concepito da qualcuno dei feudatari di Belvedere, nei primi secoli dell’esistenza del paese.

Consiste nella figura di un leone rampante, dalla postura eretta ed  aggressiva, imponente e minacciosa, che termina con due lunghe code aggressive a loro volta.

I vecchi disquisivano sul significato della composizione. Un abbinamento tra la potenza del re della foresta e la fortuna della doppia coda, riferita, quest’ultima, ad una bestiolina inoffensiva, come la lucertola che  sarebbe portatrice di lieti eventi, secondo una diffusa credenza popolare.

Il leone rampante, con la coda non più a due terminali, sarà  adottato dalla nostra comunità quale immagine per lo stemma ufficiale, che ancora oggi campeggia sul labaro ed in ogni altra rappresentazione.

E’ rimasto il significato della potenza ed è scomparso quello della figura portafortuna.

Che direbbero coloro che lo hanno scelto ed i successivi narratori della leggenda? 


LE  FRONTIERE DEL DEMONIO  

Una credenza, dura a morire, era costituita dall’indicazione di due punti cardini del vecchio Borgo in cui, all’imbrunire, Satana insediava i suoi fidi per catturare i bambini.

I posti erano così individuati: il primo “allu Pizz’ d’Acquaro” , cioè ai limiti bassi del quartiere d’ingresso al Centro Medievale; il secondo “alla Carcàra delle Molinelle”, ove era ubicato uno dei mulini ad acqua operanti fino ai primi anni del XX secolo.

La leggenda si fondava sul senso di paura che i genitori incutevano ai bambini, evitando così che si allontanassero dall’abitato e si sottraessero al controllo dei grandi.

Si può pensare che l’avvertimento trasmesso sia stato successivo al tempo in cui si chiudevano le Porte della cinta muraria,  una volta cessate le incursioni piratesche.

Aperte le Porte, persa la sicurezza, si pensò di sostituire altre frontiere, non più materiali, ma psicologiche.

Come sempre  c’era  qualcuno che giurava di aver visto i demoni guardiani e di essere sfuggito alle loro grinfie.


DONNA  SVEVA  DEGLI  ORSINI  

Son trascorsi dieci secoli dalla fondazione di Belvedere. Un lungo tempo, una lunga storia in cui ad imperare, a comandare e a guidare la comunità si sono cimentati in tanti. Principi, feudatari, podestà, commissari e sindaci  tutti appartenenti alla metà maschile della popolazione? Parrebbe di sì, se non emergesse che vi fu anche una donna, una sola donna verso la fine del XIV secolo.

Si trattò di Sveva (o Sueva) degli Orsini del Balzo, che si incontra tra le righe di alcune pubblicazioni storiche su Belvedere. A dirla tutta la sua figura è avvolta in tanta nebbia: scarse le notizie anagrafiche, confuso il suo ruolo nell’organizzazione feudale, nessun ricordo toponomastico. Tra la storia e la leggenda, anche donna Sveva merita una citazione risarcitoria ed un ricordo postumo.

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